Da anni mancavamo questo appuntamento. Il monte Camicia

Forse la più classica salita al Camicia, si inizia col sole e cielo azzurro e si finisce in vetta nella cappa avvolgente delle nuvole. Prima della vetta però gli affacci sulla Nord ripagano di tutto.


Per quanto scontato e per quanto sia una meta classica del Gran Sasso sia io che Marina mancavamo dal Camicia da un mucchio esagerato di anni e ci siamo quasi sorpresi a contarli. Era tempo di tornarci. Il piacere di salire a Campo Imperatore è di quelli particolari, quando da Fonte Cerreto, superati i primi (tanti) tornanti si iniziano ad intravedere le rotonde elevazioni, le estese praterie e qualche laghetto è come entrare in una dimensione diversa, le tensioni della vita quotidiana sembrano placarsi d’un colpo, ci si rilassa confusi in tanta vastità e in tanta armonia di luci e paesaggi; una volta superati i “cadaveri” delle strutture sciistiche mai completate sotto il monte Cristo e i profili dell’Infornace e del Prena iniziano a far parte dell’orizzonte, riprendiamo a recitare come tutte le volte il consueto mantra … che meraviglia. E’ dopo ancora, quando si attraversa la piana di Campo Imperatore, che ci si diriga verso Fonte Vetica o verso l’Osservatorio è la stessa cosa, che il tempo si ferma e si finisce davvero dentro una dimensione ancora più sospesa, quasi onirica. Ci si sente estremamente piccoli, la vastità degli spazi quasi disorienta, la durezza contrasta con la quiete, le linee ruvide della dorsale con quelle morbide della piana, il vibrare silente della forza della natura fa quasi rumore, la sensazione di essere in uno dei confini del mondo, o in uno dei suoi salotti buoni, è forte, una valanga di emozioni e di stupori ti rovistano dentro e ci si sente fortunati ad essere esattamente lì, in quello che tutte le volte inevitabilmente diventa, anche se per una sola giornata, il luogo più bello del mondo. Sostiamo al parcheggio sotto il rifugio di Fonte Vetica, sono passate da poco le otto della mattina e la vita già brulica, si preannuncia una giornata splendida, il cielo è turchino ed il torrione di vetta del Camicia sporge sopra gli scuri abeti intorno al rifugio della forestale. Prendiamo a salire per il vallone che punta la larghissima sella di Fonte Fredda tra il Tremoggia ed il Siella, sono le 8,15; qualche rapido tornante fa prendere quota, puntiamo il casottino dell’acquedotto già visibile dalla piana, quando ci arriviamo poco sotto un sentiero si stacca sulla destra per andare ad attraversare il fosso, continuiamo diritti in salita ora ripida e brecciosa a tratti, sfioriamo il casotto, 25 minuti dalla partenza, fino a salire su una leggera spalla che aggira sulla destra la piramide rocciosa che abbiamo sopra. La traccia continua a scorrere su pratoni di erba alta e folta, è esile ma ancora facile da seguire, aggira in alto il fosso dove questo praticamente si estingue; un lungo traverso, ora ben marcato, porta direttamente sulla sella, prima si biforca in quella che è la traccia che raggiunge direttamente il Siella. La dorsale, 50 minuti dalla partenza, è ampissima, la conosciamo eppure le nuvole che salgono dal versante opposto ci ingannano, non vediamo l’orizzonte e la sensazione è quella di non riuscire ad arrivare a vedere il versante opposto; ci rendiamo conto che sul lato teramano il pentolone ribolle, nuvoloni veloci e mutevoli salgono, si addensano e spariscono alla velocità del vento, addirittura il vicino monte Coppe non esiste nello scenario del momento, poco più in là invece sembra intravedersi la linea del mare, un attimo dopo sparisce tutto e veniamo avvolti dalla nebbia. Ci prende di sorpresa, l’orizzonte vasto fino al mare ci viene negato ma è affascinante lo stesso questo momento, il turbinio di nuvole e a tratti nebbia stagnante ci accompagnerà d’ora in poi per il resto della giornata. Iniziamo la lunga salita verso il Tremoggia, dopo pochi passi non ne vediamo più la fine su in cima e camminiamo tenendo semplicemente la dorsale, conosciamo il sentiero e la direzione è ovviamente scontata, senza possibilità di errori, a destra e sinistra tutto scende veloce. Superato un tratto roccioso si apre per degli istanti abbastanza lunghi uno scorcio verso il mitico Dente del Lupo; le nuvole che corrono veloci e che a tratti lasciano passare i raggi del sole contribuiscono a dargli ancora più pathos e ad accentuare quell’aurea di mistero e arditezza di cui è attorniato, spero che le tante foto scattate restituiscano la suggestione del momento. Le nuvole si rifanno scure e compatte non ci fanno intuire altro che il passo successivo e altri pochi metri di traccia che abbiamo davanti, ci sorprende la lunga salita che riprende e che sembra non avere termine, poi inaspettata la piccola croce che ci scivola accanto ci fa capire che siamo nei pressi della dorsale sommitale del Tremoggia, 2 ore e 15 dalla partenza. Superiamo la cima, prendiamo a scendere, non vale la pena di fermarsi, quando arriviamo nei pressi della sella sottostante iniziamo ad intuire il sentiero che sale lungo il vallone Vradda e che viene anticipato da un confuso e antipatico chiacchiericcio, capiamo che sul Camicia non saremo soli. Ci abbassiamo sulla sella sottostante che anticipa la parete Nord e le nuvole sembrano essersi un po’ alzate, il Camicia dalla parte opposta del vallone è solamente un muro informe, la torre di vetta è ancora coperta, si intuisce bene il traverso che dovremo salire fino alle sue pendici e bellissimi, avvolti nella foschia, si percepiscono misteriosi e minacciosi i profili della cresta della famosa parete Nord; impossibile rimanere sul sentiero, mentre Marina raggiunge la traccia principale del vallone io salgo per raggiungerli, non resisto al loro catalizzante fascino. E’ proprio sotto lo sperone Nirvana che incontro il nostro Giuseppe, ovviamente Albrizio, in perlustrazione anche lui con la consorte sui tremendi affacci della parete Nord. Un piacevolissimo incontro, a dire il vero altre volte è capitato di incontraci, segno di interessi comuni o di affinità mai troppo condivise. Salutata la coppia Albrizio rimango a lungo sulla sella sotto lo sperone Nirvana, provo a scattare le stesse foto che probabilmente ho già fatto le volte precedenti, l’intento è sempre lo stesso, riportarsi a casa le violente emozioni del momento; ovviamente non ci sono mai riuscito ma oggi ho con me la reflex, chissà che non sia la volta buona. La parete Nord, quella che si riesce a vedere ed intuire dalla sella dove mi trovo, è tremenda, un mare di roccia verticale che si stenta a pensare come teatro di tante salite, di pagine di storia alpinistica che non temono il confronto con quelle scritte sulle più blasonate e famose pareti Nord delle Alpi. In quei momenti non potevo non pensare che su quei muri di roccia che avevo davanti c’erano scritte pagine di storia nostrana, storie di successi e purtroppo anche di tragedie; risale al 1934 la prima salita su questa parete, due aquilotti di Pietracamela fecero quello che in molti fino ad allora pensavano fosse impossibile, Bruno Marsilii e Antonio Panza, scrissero la storia. Rimasero un giorno e mezzo in parete, superando passaggi fino al quinto grado, ma al ritorno non furono creduti, soprattutto dai rivali di Castelli. Un anno dopo tornarono, aprendo una variante della via e lasciarono, come segno del loro passaggio una maglia rossa ancorata a un chiodo, nel cuore della parete, episodio da cui prese il nome il famoso film. Da allora la Marsili-Panza venne ripetuta decine di volte, da “appeninisti” prevalentemente abruzzesi e marchigiani, pochi romani; nell’albo d’oro si leggono i nomi di Domenico (Mimì) Alessandri con Carlo Leone e Piergiorgio De Paulis che compirono la prima salita invernale, il De Paulis ci perse la vita, di Roberto Iannilli, di Francesco Bachetti e Giuseppe Fanesi, di Tiziano Cantalamessa e Franchino Franceschi autori della seconda invernale, di Stefano Pagnini, di Alberico Alesi, di Enrico De Luca e Lino D'Angelo, e di tanti altri per arrivare ai giorni nostri con Andrea Di Donato, che ha compiuto la prima solitaria invernale in sole cinque ore e mezzo nel 2008. Tanti altri si sono avvicendati dopo le prime salite, mi perdoneranno, se tante volte imbattendosi in questi appunti, non troveranno il loro nomi. Dopo questa digressione storica forse noiosa e pedante ma dovuta per il grande senso di enorme rispetto per ognuno di questi attori, riprendo il racconto della nostra salita che al confronto diventa la passeggiata al laghetto di Villa Pamphili. Scendo dai “denti di squalo” della cresta fino al sentiero e raggiungo la fine del vallone di Vradda, sulla sinistra si continua per una quindicina di minuti, trovo Marina che mi sta aspettando, e tra sfasciumi, profondi solchi di scolo e pochi sentieri raggiungiamo l’affollata vetta del Camicia, sono passate 3 ore e 30 minuti dalla partenza. La piccola croce è sempre la stessa, per fortuna, sbilenca e sempre male piantata a terra, incastro qualche pietra come per cercare di ancorarla ma so che sarà un esercizio inutile, tra un po’ quassù ci sarà neve e ghiaccio ed il vento farà il suo sporco compito di cercare di radere tutto ciò che si eleva da terra. C’è un nebbione da impedire ogni orizzonte, peccato, ci facciamo scattare una foto ricordo da uno dei tanti e ripartiamo subito; che contraddizione le montagne del Gran Sasso, in inverno, una volta che le strade vengono bloccate, sono quasi inaccessibili, d’estate, soprattutto nei week end, è come essere sulla spiaggia di Rimini, sono davvero pochi i mesi che si riesce a goderle come si deve. La discesa la facciamo interamente per il vallone di Vradda, e perché quello di compiere un anello è diventata una fissa e perché vista la nebbia ormai stagnate non ci sarebbe davvero altro da vedere. Lo ricordavo lungo, si è confermato tale e con la nebbia di oggi anche di più, ritroviamo un po’ di orizzonte intorno ai 1900 metri, quando ormai siamo in vista di Campo Imperatore e Fonte Vetica dove arriviamo alle 14,30 circa, In sei ore abbiamo percorso la cresta, toccato due cime, abbiamo visto poco e salito qualcosa meno di 1000 metri eppure la montagna che si respira da queste parti non ha pari sugli Appennini, Indovinate dove chiudiamo la giornata? Con le zampe sotto al tavolo al rifugio di Fonte Vetica, un meraviglioso terzo tempo a cui ormai non rinunciamo più.